Piccolo, talmente piccolo che la sua statura alla vigilia della prima guerra mondiale fu assunta come misura includente e fatale per i sardi, popolo all’epoca brevilineo. Criminale, perché la decisione di entrare in guerra – una “gigantesca carneficina” come disse Benedetto XV – fu presa esclusivamente da lui, in correità con il primo ministro Salandra, desideroso com’era di completare la cosiddetta “unità nazionale” con la conquista di Trento e Trieste, ancora preda austriaca. Meschino, perché invece di firmare lo stato d’assedio che avrebbe messo fuorilegge la canea vociante dei fascisti che marciavano 100 anni fa su Roma e disporre l’esercito a protezione della capitale, conferirà a Mussolini l’incarico di presidente del Consiglio dei Ministri. Vile e irresponsabile, perché per salvare la sua vita e quella di Badoglio non esitò a fuggire da Roma, consegnando l’Italia ai tedeschi. Protagonista di questi scellerati atti da biografia esemplare in negativo è “sciaboletta”, alias Vittorio Emanuele III; sovrano che eccelleva per nullità culturale. Pertanto risulta quasi inspiegabile, come uno dei più bei libri tipografici di sempre, battuto su Catawiki e aggiudicato ad un fortunato bibliofilo domenica 23 ottobre, potesse far parte della sua biblioteca; il cui destino infausto è sintonico a quello della monarchia sabauda. Peccato! Si potrebbe obiettare che il buon Dio più che conservare il re, come auspicava il reverendo Angius, avrebbe dovuto preservare questa pregevolissima universitas bibliorum, dispersa in tempi non certi dai venalissimi quanto insipienti eredi. Nella pubblicistica italiana del fattaccio ne aveva scritto La Voce Repubblicana; nota ripresa da Laura Laurenzi su Repubblica del 14 febbraio 1989: “Che fine ha fatto la pregiata collezione di libri messa insieme dal padre di Umberto? E’ stata forse venduta? E se è stata venduta, perché lo Stato italiano non è intervenuto per acquistarla? A porsi questi interrogativi è La voce repubblicana, in un corsivo in cui si afferma che fonti degne di fede avrebbero reso nota l’avvenuta alienazione della biblioteca personale di Vittorio Emanuele III da parte degli eredi di Umberto. Questa biblioteca, ricorda La Voce Repubblicana, contiene volumi di un certo interesse storico e di notevole interesse antiquario. Il giornale del Pri chiede di sapere se queste voci corrispondono a verità e, nel caso la notizia risultasse confermata, perché lo Stato italiano non abbia fatto del suo meglio per evitare che un patrimonio culturale di quel pregio andasse disperso.” Segue Antonio Spinosa nel Messaggero del 3 maggio 1993: “Morto Vittorio Emanuele III tutti gli eredi Savoia hanno disperso i libri che il sovrano aveva raccolto nella sua biblioteca privata di villa Savoia a Roma. Ma qual’è il capolovoro tipografico proposto da Catawiki? Nel 1775, il mondo della cultura e della bibliofilia europea «stupisce» dinanzi a uno dei libri più emblematici e spettacolari dell’officina parmense di Giambattista Bodoni, gli Epithalamia exoticis linguis reddita, esempio di letteratura encomiastica assai in voga nell’Europa prerivoluzionaria, imponente tomo stampato in folio aperto, apparso in concomitanza con la celebrazione delle nozze del principe Carlo Emanuele di Savoia con Maria Clotilde di Borbone, sorella di Luigi XVI di Francia. L’erede del regno di Sardegna era figlio di Vittorio Amedeo III, asceso al trono solo un paio d’anni prima, e della infanta Maria Antonia, figlia di Filippo V di Spagna e di Isabella Farnese. Carlo Emanuele era, dunque, nipote in linea diretta di Carlo III e cugino di primo grado del Principe delle Asturie, il futuro Carlo IV, così come, sul versante spagnolo, del duca di Parma don Ferdinando. Tali circostanze, unitamente al fatto che gli ideatori ed esecutori materiali degli Epithalamia –Paolo Maria Paciaudi, Giambernardo De Rossi e lo stampatore Giambattista Bodoni– costituissero il think tank piemontese di Parma, spiegano perché questo tour de force tipografico viene intrapreso proprio in questa città. La perfetta combinazione di arte tipografica, arte epigrafica e disegno fanno di questo libro un’impresa straordinaria, difficile da superare. «Questo splendido in folio –ha scritto Corrado Mingardi– di duecentocinquanta pagine, per il quale Bodoni si sottopose a ‘spesa enorme’ e ‘fatica immane’, presenta venticinque iscrizioni augurali, ciascuna in una lingua esotica differente e nella rispettiva versione latina, nelle quali si finge siano altrettante città piemontesi (ventiquattro per l’esattezza) a rivolgersi ai novelli sposi: un elegantissimo campionario di caratteri orientali, alcuni di lingue morte, in numero tale che nessuna tipografia di nessun paese poteva allora vantare. Gli epitalami sono preceduti dalle fastose dediche in maiuscolo ai sovrani savoiardi e agli sposi, della prefazione del tipografo e dall’ampia dissertazione del De Rossi, autore delle iscrizioni, e sono seguiti della descrizione delle scene incise illustranti allegoricamente le glorie delle varie città, descrizione scritta dal Paciaudi, autore anche delle dediche e di ogni altro testo latino fatto in nome di Bodoni […] Il volume è ornato di ben 139 rami, vero repertorio dei migliori incisori dell’epoca, Bossi, Volpato, Cagnoni, Ravenet, Sommereau, su disegni perlopiù di scuola parmense, con l’intervento anche di Petitot stesso» [Mingardi 2008, 36]. Luigi Manias




